di Jean Baptiste Molière
regia di Claudio Di Palma
con Lello Arena
e con
Fabrizio Vona, Francesco Di Trio, Giovanna Mangiù, Gisella Szaniszlò, Eleonora Tiberia, Fabrizio Bordignon,Enzo Mirone
Bon Voyage Produzioni e Civit'Arte 2013
dal 9 al 18 maggio 2014
L’avaro, insieme a Tartufo, a Il malato immaginario, a Il borghese gentiluomo, è una delle più celebri commedie di Molière. Scritta nel 1668, è in prosa, e al debutto non ebbe un grandioso successo anche se oggi è dai più considera lata migliore delle commedie di Molière. Di sicuro è una pièce straordinariamente completa e divertente e contiene tutti gli ingredienti, i motivi, gli intrecci, le scene farsesche, che rendono esilarante uno spetacolo comico. I motivi comici del teatro classico in fondo sono sempre gli stessi: il difetto maniacale del protagonista (in questo caso l’avarizia), la servitù birbantesca ed intrigante, gli amori contrastati dei giovani, la rivalità in amore tra i protagonisti (qui il padre ed il figlio), i malintesi, l’agnizione finale che risolve come un deus ex machina l’intrigo generale… In genere, su uno, su due di questi motivi, i grandi autori classici costruiscono le loro commedie: qui, invece, ci sono proprio tutti. Ma questa ridondanza di temi non appesantisce affatto la commedia: Molière è uomo di teatro troppo navigato per lasciarsi sopraffare da una piena di motivi. Come un perfetto direttore d’orchestra, Molière sa dosare equilibratamente i molti strumenti di cui dispone e ne deriva una commedia godibilissima e nient’affatto enfatica.
Di grande attualità e vivacità è l’allestimento che Claudio Di Palma propone al teatro Vittoria: i personaggi di Molière sembrano attraversare le epoche (come se la tela si aprisse nel '600 e calasse sul 2000) in una successione di stili che si snoda nell'immutabilità della trama originaria. Intorno un perimetro, quasi museale, di teche che custodiscono una nutrita e cangiante collezione di sedie. Sedie di epoche diverse in cui è possibile leggere il segno del potere, ma anche quello dell'assestamento e, conseguentemente, dell'impigrimento e della devitalizzazione. Simbolo e segno, insomma, di quella depressione dissimulata di Arpagone che gioca, combatte e si dimena con indomito furore e spaesata dabbenaggine contro le maschere della borghesia e contro i fantasmi della propria psiche.